martedì 21 febbraio 2017

Perù in marcia contro la corruzione

“Poder judicial, vergüenza nacional!”
Scandiscono così, con un'unica e potente voce, i circa 5 mila peruviani accorsi alla marcia contro la corruzione indetta per il 16 febbraio da varie organizzazioni sociali, politiche e della società civile.
Il grido si alza potente nelle strade del centro di Lima, spargendosi tra la Plaza Dos de Mayo, indicata come punto di ritrovo iniziale della manifestazione, nel Paseo de la República, di fronte al Palazzo di Giustizia e nella Plaza San Martín, luogo simbolo dell'aggregazione politica della capitale. La rabbia si mescola allo sdegno e alla frustrazione contro una classe politica che, da molti anni, appare invischiata in frequenti casi di mala gestione e di interessi personali anteposti alla res publica. La corruzione sembra scorrere a cascata, muovendosi dai vertici della politica si infiltra tanto nelle varie istituzioni dello Stato come nella pubblica amministrazione, assumendo le sembianze di un fenomeno endemico, uno spaccato del Paese. Il rischio maggiore che ne deriva è che il popolo gradualmente si abitui, ci faccia il callo, atrofizzandosi in un torpore apatico e affannandosi a ricavarsi non tanto un futuro, quanto un presente arrangiato.
Ancora più preoccupante è l'impunità che accompagna questa serie di scandali, esplosi da più di un anno in seguito al caso Odebrecht, che ha scosso la scena politica regionale dell'America Latina, investendo non solo la classe dirigente peruviana, ma anche quella argentina, colombiana ed ecuadoriana.
Da più di un anno, infatti, è emerso che l'impresa brasiliana, dedicata alle grandi opere infrastrutturali, si guadagnava numerosi appalti pubblici elargendo laute tangenti ai presidenti e ai ministri competenti dei vari paesi dell'aerea. Il Perù non è rimasto immune dalla pratica criminosa e, gli ultimi tre presidenti che hanno governato il paese, Alan García, Alejandro Toledo e Ollanta Humala, provenienti da partiti con posizionamenti politici molto diversi tra di loro, si trovano ora nell'occhio del ciclone, mostrando la trasversaslità del fenomeno stesso. Sulla testa di Toledo, che pare stia cercando asilo in vari Paesi, da ultimo Israele che gli ha negato l'ingresso, pesa un mandato di cattura internazionale e si stima che abbia ricevuto più di 20 milioni di dollari da Odebrecht. Humala, che aveva fatto della lotta alla corruzione il proprio cavallo di battaglia, è finito per ricadere nella stessa dinamica e nell'ottobre 2016 è stata creata una commissione incaricata di indagare su varie opere pubbliche concesse al gruppo Odebrecht.
Infine c'è Alan Garcia, visto da molti come una figura intoccabile e due volte presidente del Perù i cui capi d'accusa sono legati ai maxi appalti, a cui si sommano i rapporti non certo limpidi con il narcotraffico e la strage del Baguazo (32 morti), avvenuta nel 2009 in seguito a un violento scontro tra polizia e popolazioni indigene della selva amazzonica, i quali protestavano contro le concessioni minerarie lesive dei propri diritti e usurpatrici delle proprie terre.
“Last but not the least”, una delle figure più controverse della scena politica peruviana, Alberto Fujimori. Attualmente nel carcere del Callao (unità amministrativa autonoma di Lima), sta scontando una pena di 25 anni e i vari capi d'accusa spaziano dall'appropriazione indebita di fondi pubblici, al falso ideologico, alla corruzione e all'essere stato riconosciuto come il mandante reale delle due stragi avvenute tra il 1991 – 1992 (La Cantuta e Barrios Altos). Il “chino”, che ha governato con metodi autoritari il paese durante il periodo più critico della violenza politica, in cui lo scontro tra lo stato e le guerriglie insorgenti di sendero luminoso e l'MRTA (Movimiento Revolucionario Túpac Amaru) era giunto al parossismo, continua ad avere un forte ascendente sul Paese, tant'è che larga parte del popolo peruviano sarebbe favorevole all'indulto e sua figlia, Keiko Fujimori, detiene la maggioranza dei seggi nel Congresso, imbrigliando l'attività politica della presidenza di Pedro Pablo Kuczynski (PKK).
Di fronte a questa grave situazione, il sindacato dei lavoratori (CGTP) e il Colectivo No Keiko hanno convocato la manifestazione, a cui si sono sommati vari esponenti del Frente Amplio, guidato da Verónika Mendoza, la Democracia Cristiana, il Frente de Unidad y defensa del publo peruano e il collettivo degli studenti dell'università nazionale.
Partiti dalla piazza Dos de Mayo il corteo ha sfilato per il centro, per poi scindersi e raggrupparsi in due punti: la maggior parte dei manifestanti si è fermata davanti al palazzo di giustizia, di fronte a un grande dispiegamento delle forze di sicurezza, mentre un altro gruppo si è concentrato in Plaza San Martín. Nel tardo pomeriggio limeño, la manifestazione, durata circa quattro ore, si è svolta pacifica e colorata. Un fulgido esempio di democrazia, una compresenza di anime e sensibilità distinte, accomunate dall'indignazione nei confronti della mala politica e desiderose di costruire un futuro migliore per il Paese e per i propri figli.

Stefano Fraccaroli,
Casco Bianco ProgettoMondo Mlal Perù

venerdì 17 febbraio 2017

Per un caffè "corretto" in tutti i sensi

Esistono vari modi per preparare un caffè. In Italia l’espresso è sicuramente quello che va per la maggiore, solitamente sorseggiato al bancone o comodamente seduto in un bar. In questo caso la pressione del vapore dell’acqua è determinante per un buon risultato. Esistono poi quelli più ricercati e soavi come il chemex, che mantiene gli olii propri del grano grazie al suo filtro di carta, da cui si ricava un caffè delicato e aromatico molto simile a un tè.
Il caffè più gettonato tra i peruviani è quello americano, passato con una macchina elettrica. Il caffè tradizionale, invece, sarebbe quello passato goccia a goccia, seguendo i preziosi insegnamenti della nonna che consiglia di aggiungere dell'acqua in un recipiente di metallo mescolando dolcemente con un cucchiaio e facendo filtrare l’acqua poco a poco.
Rebecca Valle, somelier che affianca la Junta del Café nelle attività formative, ha fatto tappa a Cajamarca dove è stata rifornita di ottimi chicchi tostati da una produttrice locale del progetto “Café Correcto”, promosso da ProgettoMondo Mlal per ridurre la precarietà di lavoratori e lavoratrici rurali del caffè. Si tratta di Sabina Maldonado Peña una giovane caficultirce della zona di Yandiluza, San Ignacio, nel dipartimento appunto di Cajamarca.
La “guida sensoriale” ha poi insegnato alla nostra equipe in Perù, e in particolare ai Caschi Bianco, come apprezzare al meglio le caratteristiche della miscela con la prensa francese. Il sapore che ne deriva risulta più ricco e intenso, con un contenuto maggiore di caffeina. Si tratta di un caffè corposo e tutto sommato facile da preparare.
Il procedimento da seguire è il seguente: usare 50 grammi di caffè macinato grosso per 750 cl di acqua calda. Prima di tutto si mette il caffè, poi si aggiunge un po’ di acqua calda, ma non ancora giunta a ebollizione. Si lascia riposare per trenta secondi cronometrati, per poi mescolare la bevanda con un cucchiaio in modo che l'acqua e il caffè si integrino completamente. Passati altrei tre, quattro minuti il processo è completato.
A conferire al caffè un sapore tanto intenso, è il peculiare processo di lavaggio e fermentazione, che dura non meno di 24 ore.
Spiega Rebecca: “all'olfatto il caffè è molto aromatico, con note fruttate al sapore di ciliegia, un corpo cremoso e con un retrogusto dolce e prolungato”.


Davide Verzegnassi, operatore ProgettoMondo Mlal,
con Caterina Grottola e Stefano Fraccaroli
Caschi Bianco ProgettoMondo Mlal Perù

mercoledì 1 febbraio 2017

Il ritorno del Marocco


Il 28° summit dell’Unione Africana, che si è appena concluso ad Addis Abeba, ha decretato la reintegrazione del Marocco nell’organizzazione panafricana.
La decisione, adottata per consenso dai 54 capi di stato e di governo del continente africano, segna una tappa storica e pone fine a 33 anni di "politica della sedia vuota" attuata da Rabat.
Il Marocco aveva infatti abbandonato il consesso africano in segno di protesta nel 1984, dopo la decisione dell’allora Organizzazione dell’Unità Africana di riconoscere la Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD), che si contende da oltre 40 anni con il regno alawita la sovranità sul Sahara Occidentale.
Il vertice durante cui si è discusso del dossier Marocco, è stato teatro di grande manovre diplomatiche e di un acceso dibattito. Se la grande maggioranza dei paesi membri si erano pronunciati favorevoli alla reintegrazione del Marocco, restava da vincere la resistenza del fronte anticoloniale guidato dai tre giganti d’Africa: l’Algeria (che ospita all’interno del suo territorio 165000 rifugiati saharawi), la Nigeria e il Sudafrica che riconoscono la RASD e da sole finanziano il 60% del budget dell’organizzazione. Nel corso della seduta plenaria del 30 gennaio questo gruppo di stati si sono pronunciati contrari alla reintegrazione del Marocco in difesa del diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi, ponendo come condizione il ritiro del Regno dai territori contesi.
Il ritorno all’ovile panafricano è sempre stata una priorità dell’attuale monarca Mohammed VI che si è recato personalmente in visita ufficiale ad Addis Abeba per seguire l’evoluzione del vertice. Fin dal suo insediamento nel 1999, Mohammed VI, nel tentativo di uscire dall’isolamento dovuto alla condanna internazionale per la questione irrisolta del Sahara, ha riorientato le direttrici della politica estera marocchina, facendo della diversificazione dei partner e dell’apertura ai paesi dell’Africa subsahariana l’asse strategico della sua diplomazia. Dalla sua ascesa al potere, il sovrano ha effettuato 50 visite ufficiali in Africa, che hanno consentito di rafforzare la presenza economica marocchina (il Marocco è il primo investitore africano nella regione occidentale dell’Africa e il secondo a livello continentale) e di scalzare dalla scena diplomatica l’Algeria, rivale diretta per l’egemonia regionale, imponendosi agli occhi sia dei paesi africani che delle potenze occidentali come intermediario delle crisi di cui il continente è sempre prodigo.
Il rientro nella grande famiglia africana costituisce quindi il coronamento di una strategia diplomatica decennale che il sovrano ha condotto in prima persona allo scopo di riabilitare l’immagine del paese e di incassare il sostegno di un numero crescente di stati dell’UA.
La riammissione del Marocco offre prospettive interessanti di dialogo, dal momento che Rabat e la RASD siederanno per la prima volta in una stessa organizzazione. Tuttavia si potrebbe aprire una fase di instabilità e di scontro permanente in seno al’organizazione nel caso Rabat decidesse di servirsi delle alleanze tessute in questi anni per esercitare pressioni sui dirigenti della RASD per spingerli ad accettare la sua proposta autonomista o addirittura per provocarne l’espulsione dall’organizzazione.
Se Rabat vorrà sostenere le sua ambizioni africane dovrà da una parte, essere in grado di avviare un cambiamento al suo interno, ponendo fine alle violazioni dei diritti umani nei territori occupati e, dall’altra, tollerare la presenza dei saharawi, dei loro simboli e dei loro dirigenti. Soltanto una politica costruttiva improntata al dialogo potrà condurre a una soluzione politica di quella che da 42 anni rappresenta una ferita aperta per il sistema internazionale.

Marco Decesari,
Casco Bianco ProgettoMondo Mlal in Marocco