mercoledì 16 dicembre 2015

Burkina, imparare a nutrirsi per insegnarlo alla comunità

A fine novembre mi sono spostata a Ouessa, un piccolo villaggio del Burkina Faso al confine con il Ghana, per seguire la formazione nell’ambito del progetto di salute comunitaria Sui sentieri della Salute, che mi impegna in quest’anno di servizio civile.
Il progetto, in una prima fase, ha visto la formazione di infermieri incaricati nella divulgazione e promozione di buone pratiche inerenti al campo igienico-sanitario e alimentare.
Contemporaneamente a questa prima fase, si è svolta l’attivazione delle Cellule di Educazione Nutrizionale (CEN), che fungono da collegamento diretto tra il personale medico e gli abitanti del villaggio. Indirettamente ho seguito la difficoltà di questa attività: parte dell’equipe di progetto ha organizzato incontri nei villaggi, inizialmente spiegando il progetto e le sue attività e chiedendo poi disponibilità e volontà di partecipare al progetto. Sono state quindi identificate delle figure che formano “il direttivo” della CEN: presidente e vice-presidente, segretario, tesoriere, responsabile all’organizzazione, responsabile all’informazione e animatori, quest’ultimi chiamati a svolgere un ruolo di “agenti di salute comunitaria”. Sono tante le difficoltà riscontrate a causa dei tabù presenti nei villaggi, ma è tanta anche la forza di volontà della gente locale per migliorare le proprie condizioni di vita.
A Ouessa si è svolta la seconda fase della formazione, quella degli agenti di salute comunitaria (animatori). In queste cinque giornate hanno partecipato i primi trenta animatori dei seicento totali, 4 per ogni villaggio e per un totale di 150 villaggi scelti. Ouessa rappresenta uno dei primi poli formativi per i primi sei villaggi.
Mi immagino lo sforzo di questa gente a spostarsi: ci sono persone che per raggiungere il loro polo formativo devono percorrere anche 10-20 chilometri. Molti preferiscono trovare ospitalità da parenti nel villaggio di Ouessa.
L’appuntamento era alle 8 del mattino. I partecipanti erano tutti lì ad aspettarci. In questi posti la donna non sempre riesce ad affidare il figlio più piccolo ai parenti così, la formazione era accompagnata anche dal pianto di qualche bambino.
Degli animatori presenti alla formazione non tutti sapevano parlare francese, la lingua ufficiale del Paese. Nonostante questo, i partecipanti sono riusciti a creare quella giusta atmosfera di aiuto reciproco alla comprensione: sembrava partecipare a piccoli spettacoli dove gesti e disegni sostituivano le parole e aprivano al sorriso.
Era chiara la forza di volontà di apprendere ciò che veniva mostrato.
“Capiamo la fortuna di poter di partecipare a delle formazioni che possano aiutare noi e gli abitanti dei nostri villaggi a risolvere uno dei tanti problemi che colpisce i nostri figli”, ha detto una delle animatrici presenti alla formazione. Ma è non sempre così. Nei villaggi il consenso a introdurre o rimuovere certe pratiche o abitudini deve superare, attraverso la sensibilizzazione, l’ostacolo dei tabù e delle autorità imposte dai mariti alle donne interpellate.
Per quest’ultimo motivo, nella scelta degli animatori, si è cercato di privilegiare la donna.
“Le animatrici delle CEN sono integrate nei Comitati di Nutrizione del Villaggio e nei Comitati di Sviluppo del Villaggio” spiega Rosalie Midjour, infermiera incaricata di seguire le formazioni del comune di Dano.
Nei primi giorni della formazione si è parlato molto di igiene, della giusta alimentazione e della prevenzione della donna incinta. Non è semplice in questi posti trovare gente che conosca i veri motivi della trasmissione di malattie e dell’importanza dell’igiene del corpo, alimentare e dei luoghi domestici. Non bisogna dare per scontato che siano note le proprietà dei vari cibi: quale alimento contenga le proteine, quale le vitamine quale i grassi. Non bisogna dare per scontato che si conosca il divieto di fumo, di bere alcol e di fare lavori pesanti durante il periodo di maternità.
Ciò che per noi è ovvio, per altri non lo è.
La formazione, negli ultimi due giorni, si è conclusa con delle dimostrazioni pratiche. Si poteva parlare di veri e propri corsi di cucina, dove donne e uomini erano chiamati a mettere in pratica ciò che avevano appreso nei giorni precedenti: pappette fatte da tre farine che costituiscono la base per l’alimentazione infantile, l’aggiunta di proteine, di grassi e di zuccheri nella nutrizione del bambino.
In quest’ottica, oltre al materiale didattico, è stato affidato a ogni Cellula di Educazione Nutrizionale un kit culinario, così da incaricare direttamente gli animatori/abitanti del villaggio nella pratica di promozione e sensibilizzazione, non solo concettuale ma anche pratica.
Questa formazione è stata uno strumento che ha permesso alla gente di ascoltare, scoprire, confrontarsi e infine diventare un mezzo di sviluppo.  

Veronica Brugaletta
Casco Bianco Cvcs-ProgettoMondo Mlal in Burkina Faso

lunedì 14 dicembre 2015

Burkina, mamme coraggio contro la fame

“Non avrei mai creduto che una pappina potesse salvare mio figlio. E soprattutto che avrei potuto farlo io stessa cucinando per lui i prodotti del mio villaggio!”
La storia di mamma Salimata è la prova vivente di un lento ma inesorabile cambiamento culturale e generazionale che ha già come protagoniste centinaia di mamme del Burkina Faso. Così come Salimata, in due anni, altre 200 mila donne hanno infatti imparato a riconoscere la malnutrizione, a prevenirla e a curarla e, quindi, a insegnare ad altrettante donne a fare lo stesso. Non c’è infatti miglior aiuto dell’esempio e non c’è migliore risorsa del coraggio di una mamma.
Il programma di lotta alla fame “Mamma!” che sta portando avanti ProgettoMondo Mlal in Burkina Faso ha creato in 3 anni un piccolo miracolo. Praticamente, scommettendo sull’educazione delle madri e il protagonismo della donna, ha visto crescere un esercito pacifico di mamme che si sono appropriate di informazioni e ricette e hanno ingaggiato una battaglia lunga e silenziosa per fare ciò che non è riuscito al 1° Obiettivo del Millennio: sconfiggere la fame.
Le donne come Salimata non chiedono cibo, denaro o commiserazione. Hanno fame di informazioni, formazione, consigli, ricette perché possano loro stesse farsi carico del problema.
“Quando al nostro villaggio sono arrivate un gruppo di donne a chiederci di visitare i nostri bambini –confessa con naturalezza Salimata- io mi vergognavo di quanto fosse magro e poco vivace mio figlio rispetto agli altri. Poi gli hanno misurato il braccino e mi hanno spiegato che il motivo era che non mangiava bene, e che dovevo integrare, alla mia pappa di farina di miglio, anche dei fagiolini e dello zucchero. E mi hanno fatto vedere come avrei dovuto prepararla. Così mio figlio ha ricominciato a mangiare con gusto e finalmente ha iniziato a camminare…”.
Nelle aree rurali del Burkina Faso si contano ancora 35 mila morti all’anno per malnutrizione, i tassi di malnutrizione infantile cronica sono tra i più alti nel mondo. Eppure negli stessi villaggi si produce cibo a sufficienza, e anche l’accesso a quanto viene prodotto non sarebbe di per sé assolutamente proibitivo.
Le concause sono diverse, ignoranza, carenza di informazioni e di pratiche ormai per noi assodate.
Così, il non sapere quanto sia importante per esempio l’allattamento al seno fino ai 6 mesi, diventa decisivo. La donna, perché lavora o perché ha più figli piccoli, sostituisce troppo presto il latte con una inconsistente tisana di erbe. Non conosce le regole base dello svezzamento o i valori nutrizionali dei vari alimenti; non sa che la dieta giornaliera deve contare anche sulle proteine (che non sono per forza carne ma anche legumi, latte, uova), non conosce altre ricette se non quella a base di cereali che si tramanda da 100 anni di famiglia in famiglia. Senza contare che la donna, priva di un ruolo al di fuori della famiglia, non ha concretamente l’opportunità e l’appoggio dell’uomo e della comunità per cambiare le regole del gioco.
Il coraggio e l’orgoglio femminile possono muovere le montagne. Così, anche nel piccolo villaggio di Mapara, escluso dal programma di formazione dell’Ong italiana, le donne sono andate di persona ad assistere alle dimostrazioni negli altri villaggi. Hanno fatto tesoro di quanto visto e sentito e, da sole, hanno fedelmente replicato nel loro villaggio: “Non sapevamo di quale malattia si trattasse ma – ci dice una di queste donne, Lidiane- non passava mese che non seppellissimo un bambino di meno di 5 anni”. Quando abbiamo capito cos’era (malnutrizione, ndr.), e come evitarla abbiamo fatto in modo che gli agricoltori del villaggio mettessero a disposizione alcuni prodotti della zona e che 3 donne di noi imparassero a preparare delle pappe ipernutrienti.
Da quando si svolgono queste attività, la malnutrizione è praticamente sparita dal villaggio.

Lucia Filippi, ProgettoMondo Mlal

DONAZIONI
Iban IT 07 J 05018 12101 000000511320
Causale “progetto Mamma!”
Intestato a ProgettoMondo Mlal onlus

Bolivia, sicurezza alimentare per i campesinos

Emila Quispe avrà circa 65 anni, sorride a tre denti perché ormai ha solamente quelli. È seduta a fianco delle sue quattro amiche coltivatrici. Masticano foglie di coca per sopportare il sole, la fame, la sete e la fatica di quella giornata.
Emilia ha la pelle bruciata dal sole e le mani consumate dal lavoro. Ha avuto 9 figli che se ne sono andati tutti in città perché in campagna, nella comunità di Totorani del municipio di Calamarca, a 6km a piedi dalla strada principale e distante 40 km da El Alto, non hanno visto un futuro per loro. Non hanno tutti i torti.
Emilia però è rimasta sola, suo marito è morto. Fatica molto a camminare e dovrebbe essere operata alle ginocchia, ma ovviamente i soldi non li ha. Non parla molto bene il castigliano perché è una chola Aymara e con solo 3 denti è difficile articolare frasi comprensibili. Riesce comunque a farsi capire e ci racconta che ha un piccolo campo che lavora da sola: zappa la terra, semina e raccoglie i frutti della Pachamama (la Madre Terra) a cui è molto grata.
Quest'anno però, per la sua invalidità, ha seminato solo una piccola parte del suo campo e quindi vedrà crescere soltanto qualche patata e niente di più. Si sa, con qualche patata non si sopravvive, non si compra da mangiare a sufficienza per ogni giorno, né ci sono i soldi per andar in città, togliersi qualche sfizio, comprare un vestito nuovo e operarsi alle ginocchia.
La storia di Emilia è una fra tante, e lei come molti rientra in quel gruppo di persone che non hanno garantita una sicurezza alimentare.
La sicurezza alimentare è definita dalla FAO come la possibilità di "assicurare a tutte le persone e in ogni momento una quantità di cibo sufficiente, sicuro e nutriente per soddisfare le loro esigenze dietetiche e le preferenze alimentari per una vita attiva e sana", e questo in Europa è un diritto acquisito, certo ed inviolabile.
In un Paese in via di sviluppo come la Bolivia, invece, in cui si assiste all'abbandono delle campagne, in cui le città non posseggono le strutture adeguate ad accogliere la migrazione dalle zone rurali, in cui un pranzo costa 2 euro e fare la spesa per preparalo ne costa 3, non è possibile parlare di sicurezza alimentare.
Interessante è andare al supermercato che ha prezzi europei e trovare prodotti con etichette incomplete, con additivi e coloranti vietati in Europa. La mancanza di regolamentazioni in merito è evidente e un gap legislativo di questa portata costituisce un danno per la salute della gente.
È in questo quadro che si inserisce il lavoro di molte ONG che operano in Bolivia. Fundaciòn Sartawi Sayaryi, con il sostegno e la collaborazione di CVCS dal 2005 ad oggi, opera in particolar modo per fortificare il potenziale dei campesinos, i contadini boliviani, supportandoli nel creare sistemi di irrigazione, migliorare la qualità e la quantità del bestiame e delle sue produzioni, indirizzando i produttori a una agricoltura sostenibile e biologica nel totale rispetto dell'ambiente, per migliorare la commercializzazione e la trasparenza per il consumatore, grazie alla partecipazione a fiere sparse per tutto il dipartimento di La Paz e mettendo a disposizione nella propria sede uno spazio di vendita per i campesinos.
Biologico non significa migliore ma indica che considera tutto l'ecosistema, favorendo la biodiversità e la naturale fertilità del suolo e che esclude dal processo prodotti chimici e organismi geneticamente modificati.
Cosa c'è di più bello dell'ottenere sicurezza alimentare tramite una agricoltura sostenibile in cui i beneficiari siano sia il produttore che il consumatore?
Emilia anche se non ha niente è felice, ride e divide con le sue amiche il suo pranzo (patate, pomodori e un pezzetto di pollo) e brindano insieme con una bevanda dolce che conservano per le occasioni speciali.
Nicolò Villa

DONAZIONI
- c/c banca Credito Cooperativo Cassa Rurale di Lucinico, Farra e Capriva
- IBAN IT23 M086 2212 4010 0400 0060 012
- Intestato a CVCS – Centro Volontari Cooperazione allo Sviluppo
- Causale “Progetto Quinoa bio Bolivia”
- www.cvcs.it

Haiti, il riso fa...buon sangue

«Coltivo la terra da quando ero bambino, un mestiere che ho ereditato da mio padre e dal padre di mio padre… Lavoravamo duramente, riuscendo a malapena a mangiare una volta al giorno. Siamo andati avanti così per anni, senza immaginare che si potesse vivere in un altro modo, e che la povertà potesse venir sconfitta», racconta Sonson, 49 anni, abitante di Bocozelle nella valle dell’Artibonite, 120 km a nord di Port-au-Prince, la capitale di Haiti.
Il Paese è divenuto tristemente “famoso” da quando, nel 2010, il terremoto ha mietuto 220.000 vittime e provocato danni per 14 miliardi di dollari. Oltre a questo, due uragani scoppiati nel 2012 hanno contribuito a distruggere l’intera produzione agricola, in particolare quella di riso, il piatto base dell’alimentazione locale. «A peggiorare la situazione, la concorrenza del riso statunitense favorito da una politica doganale che ha costretto l’ex presidente Aristide ad abbassare i dazi su questo cereale dal 22 al 3%», spiega Andrea Fabiani, che per tre anni ha lavorato ad Haiti per conto dell’associazione torinese CISV.
«Oggi il riso locale costa 900 gourde haitiani (circa 15 euro) al quintale, contro gli appena 400 gourde di quello importato dagli Stati Uniti. E per le famiglie povere - che vivono con 40 centesimi di euro al giorno a persona, e che costituiscono il 50% della popolazione - è più conveniente acquistare il riso straniero a scapito della produzione locale».
L’altro paradosso è che, senza importazioni, la produzione interna non basta a soddisfare i bisogni locali. «Per liberarsi dall’import e dagli aiuti esterni occorre perciò rilanciare e raddoppiare la produzione» dice Andrea. Un’utopia?
«Qui a Bocozelle, dove siamo attualmente 48.000 abitanti, siamo riusciti a raddoppiare la produzione di riso da 2,5 a 5 tonnellate per ettaro, nel giro di pochi mesi», racconta Sonson, membro della federazione Ojl 5 (“Occhi aperti” in creolo) con cui CISV collabora e che riunisce oltre 50 organizzazioni contadine.
«All’inizio non è stato tutto rose e fiori», spiega Andrea, «perché i risicoltori erano restii a modificare i metodi di lavoro tradizionali».
Adesso veniva loro richiesto di unire le proprie (piccole) parcelle di terra in un unico appezzamento, più facile e redditizio da lavorare; di seguire specifici corsi per migliorare le tecniche di coltivazione e gestione; e di utilizzare un nuovo sistema di credito in natura per ricevere concime e sementi in prestito dalla RACPABA (rete di associazioni e cooperative agricole dell’Artibonite), dando parte del riso prodotto come “restituzione” al termine del raccolto.
«Tutte queste novità all’inizio andavano ‘digerite’, perciò siamo partiti con una piccola sperimentazione su 4 ettari di terreno», racconta Andrea.
«Ma fin dal primo raccolto si sono ottenute rese di 5-6 tonnellate per ettaro, e questo ha convinto i contadini a proseguire, arrivando in poco tempo a 30 ettari di risaie coltivate». Un successo, conferma Antò, anche lui risicoltore di Bocozelle: «Avevo preso in affitto un lotto di terreno per coltivarlo, ma quando il proprietario ha visto che il suo vecchio appezzamento poteva produrre fino a 6 tonnellate di riso di buona qualità, ha subito voluto indietro la terra per coltivarsela da sé!».
Adesso CISV e i contadini dell’Artibonite sono arrivati a mettere a coltura 100 ettari di risaie, a beneficio di 1.600 famiglie. «Abbiamo iniziato a lavorare e a vivere meglio», dice Sonson. «E’ più facile procurarsi i mezzi che ci servono per il nostro lavoro (concime, sementi…), riusciamo a dare da mangiare regolarmente ai nostri bambini, e molti nei villaggi hanno iniziato a mandare i figli a scuola».
Molto però resta da fare: «Spesso manca l’acqua per irrigare, costruire canali è costoso e per bere si usa spesso l’acqua del fiume, ma fa male alla salute». «Occorre sviluppare ancora di più l’agricoltura» dice Andrea, «che è la base dell’alimentazione e dell’economia. Ed è l’unica via per aiutare gli haitiani a camminare di nuovo sulle proprie gambe, liberandosi dalla dipendenza dall’estero».
Stefania Garini, Cisv

DONAZIONI SU
- cc bancario Banca Etica IBAN IT25 K 05018 01000 000000110668
- on line su www.cisvto.org
intestati a CISV - causale HAITI
http://www.cisvto.org/paesi/haiti

venerdì 11 dicembre 2015

Congo, un orto per la scuola

«Da tre anni qui a Nyangezi sta cambiando tutto. Molti ragazzi, che altrimenti avrebbero abbandonato la scuola, continuano a studiare. E anche io ho più speranza riguardo al mio e al nostro futuro». Frère Charles è il direttore dell'Istituto Weza di Nyangezi, nella provincia del Sud Kivu della Repubblica Democratica del Congo. Da anni segue l'istituto, insieme agli altri confratelli Maristi. Ed è lui che dice che da quando Amici dei Popoli è intervenuto con il suo progetto “Per un'istruzione di qualità” c’è stato un lento ma consistente miglioramento della situazione.
Il Sud Kivu è una delle province in cui la popolazione risulta tra le meno istruite della RDC. Tanti bambini di età compresa tra i 6 e gli 11 anni non riescono a frequentare la scuola dell'obbligo. Molti abbandonano la scuola, il tasso di bocciature è alto e molti sono gli ingressi tardivi. Coloro che non entrano a scuola o che non completano i loro studi primari sono figli soprattutto di famiglie povere, e bambini che provengono dalle campagne. La zona di Nyangezi ha convissuto, e convive da molto tempo, con una situazione di grave insicurezza e qui le famiglie sono state spesso attaccate dai ribelli. Molti sono stati uccisi e tantissimi bambini sono oggi orfani, traumatizzati dagli effetti della guerra.
«C'è una grande carenza di insegnanti formati», continua Frère Charles. «Quelli che lavorano si sentono isolati e demoralizzati, e l’esiguità dei salari pagati dallo Stato – nonché la loro irregolarità – li demotiva. In più, da ormai due decenni non esiste un sistema di formazione permanente per i docenti e la maggior parte non ha alcun accesso a risorse pedagogiche».
Per questo Amici dei Popoli, in collaborazione con la congregazione dei Fratelli Maristi, ha avviato nel 2010 il progetto “Per un'istruzione di qualità” con l’obiettivo di rafforzare i servizi di Scuola Primaria e di reinserimento scolastico per i bambini vulnerabili.
Le attività sono molteplici: innanzitutto un corso di formazione per insegnanti che ha coinvolto oltre 180 docenti provenienti da 24 scuole del territorio. I temi riguardavano la pedagogia evolutiva, l'educazione nutrizionale, la sessualità, i diritti umani e dell’infanzia, il lavoro d'equipe, il rispetto dell’ambiente. Gli insegnanti hanno poi costituito una rete chiamata “Gruppo di risparmio e di credito” con il quale stanziano parte del loro stipendio per costituire un fondo con cui finanziare piccole attività generatrici di reddito.
E poi c’è l’orto: un orto-giardino creato all'interno della scuola. Uno spazio molto grande in cui vengono coltivate cipolle rosse, porri, cavoli, amaranto, melanzane, mais, fagioli, patate dolci, manioca, fagiolini e spinaci che vengono utilizzati per l’alimentazione dei ragazzi dell’internato, vengono distribuiti ai bambini vulnerabili della scuola primaria e in parte vengono venduti sul mercato locale per aiutare l’autofinanziamento della scuola e delle altre attività. Due agronomi seguono i lavori e mettono a disposizione le loro competenze per la riuscita delle coltivazioni, ma offrono anche importanti consigli ai genitori, che così sono in grado di migliorare anche la coltivazione dei propri orti domestici. La carica innovativa e creativa di questo progetto è che i genitori che non hanno possibilità di pagare le tasse scolastiche per i propri figli possono offrire ore di lavoro nell’orto-giardino. In cambio la scuola si prende in carico le spese di frequenza scolastica. I risultati sono evidenti: «I genitori si sentono valorizzati e sono contenti di mettere a disposizione il loro lavoro ricevendo in cambio la possibilità per i propri figli di accedere al percorso scolastico».
Tutte queste iniziative hanno fatto sì che la riuscita scolastica del distretto sia notevolmente aumentata e i risultati dell'esame nazionale delle scuole coinvolte sono stati quasi tutti positivi.
Quella dell’Istituto Weza è l'esempio di come mettersi insieme, sostenersi reciprocamente e provare nuovi espedienti creativi che uniscono ambiti differenti – come ad esempio l'orticultura e l'istruzione – possano permettere il miglioramento delle condizioni di vita anche in contesti di disgregazione dello stato sociale e di crisi profonda come quello di questa sofferente provincia della Repubblica Democratica del Congo.
Enrico Campagni e Morena Lorenzi


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Intestati a: AMICI DEI POPOLI ONG Causale RDC - NYANGEZI istruzione