martedì 7 ottobre 2014

I diritti negati del Popolo guatemalteco

Il 20 settembre si diffonde la notizia di un massacro avvenuto la notte precedente a Los Pajoques, una comunità di San Juan Sacatepequez, Guatemala. La maggior parte dei quotidiani riporta il fatto come uno scontro interno tra i membri della comunità, in conflitto tra loro per divergenze sulla realizzazione del progetto della multinazionale Cementos Progreso (la costruzione di una cementificio e di un’enorme strada in territorio indigeno). Il giornale on-line Prensa Comunitaria riporta invece l’informazione, pubblicata poi in Italia dal Manifesto il 26 settembre, secondo cui un gruppo armato (i cui componenti sono stati successivamente identificati come dipendenti della società Cementos Progreso) è penetrato nel territorio di Los Pajoques e ha aperto il fuoco, dando il via a un circuito di violenza culminato con 11 morti e diversi feriti. Vi si legge che gli abitanti della comunità raccontano di aver chiamato la polizia più e più volte, chiedendone l’intervento. Che non c’è mai stato. In compenso il presidente ed ex generale Otto Perez Molina ha dichiarato lo “stato emergenza” con conseguente sospensione di alcuni diritti: a detta del Governo, per evitare vendette e rappresaglie; a detta della comunità, perché si potesse agire indisturbati con arresti e perquisizioni a loro danno.
Le informazioni sono quindi discordanti, a seconda del giornale che si legge. Ciò che appare chiaro ed univoco è invece la condanna da parte dell’Onu lo scorso 30 settembre e la conseguente richiesta alle autorità di chiarire i fatti e di punire i responsabili. L’Onu ha anche condannato la proclamazione dello “stato d’emergenza” non ritenendolo l’approccio adeguato alla soluzione del conflitto.
Facendo qualche ricerca appare subito chiaro che l’episodio di violenza non è un fatto isolato e a se stante: i conflitti nella zona di San Juan Sacatepequez risalgono al 2005, anno in cui il Ministero di Energia e Miniere (Mem) aveva rilasciato tre licenze minerarie alla ditta Cemento Progreso (i cui fondatori – la famiglia Novella – hanno peraltro origini italiane). Intenzione dell’impresa è costruire una fabbrica di cemento, i cui lavori inizieranno poi nel 2006. Eppure la convenzione 169 dell’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro) riconosce chiaramente i diritti di proprietà della terra ai popoli indigeni (la cui percentuale è, in San Juan Sacatepequez, l’82%) e stabilisce che essi debbano essere consultati ogniqualvolta vengano varati leggi o progetti di sviluppo che possono avere un impatto sulle loro vite. A questo proposito gli abitanti del dipartimento denunciano di non essere mai stati minimamente interpellati e ribadiscono la loro contrarietà al progetto, che però prosegue. Con la prosecuzione del progetto, e la conseguente negazione dei diritti della popolazione indigena, iniziano i conflitti. L’epilogo avviene, come sappiamo, il 19 settembre 2014.
I fatti ci raccontano, insomma, 8 anni di ingiustizia. I fatti purtroppo ci raccontano anche che di ingiustizie simili il Guatemala ne è pieno. Molteplici sono i casi di violazione della convenzione 169 sopracitata, diverse le multinazionali che si stanno arricchendo sulle spalle dei popoli indigeni, con la complicità di un governo che, sulla carta, ha firmato vari strumenti internazionali di difesa del diritto, ma nella realtà dei fatti si comporta da oppressore.
L’episodio di San Juan Sacatepequez è dunque solo uno degli ultimi che potremmo citare: San Miguel Ixtahuacán, Sipacapa, San Juan Cotzal y Cunén, Totonicapán, Livingston, La Puya, El Estor, San Rafael Las Flores, Mataquescuintla, Monte Olivo e Lanquin,e molti altri… sono tutti casi in cui l’opposizione all’apertura di miniere, centrali idroelettriche cementifici, agrocombustibili e megaprogetti è stata affrontata con la repressione. Secondo la legge del terrore e dell’intimidazione, che purtroppo pare essere ancora molto diffusa in Guatemala.
La negazione dei diritti avviene in particolar modo nell’ambito dell’attività estrattiva: di fatto, da
quando nel 2003 la multinazionale canadese GoldCorp installò la prima miniera Marlin nel dipartimento di San Marcos, ovunque siano poi arrivate imprese (straniere o nazionali) con l’intenzione di avviare attività estrattive, lì ci sono stati conflitti e diritti negati.
Proprio di questi giorni (30 settembre) è il rapporto di Amnesty International intitolato “La mineria en Guatemala: derechos en peligro”. Il report svolge un’analisi generale della situazione attuale del Paese, seguita da un’analisi specifica sulla situazione delle miniere, descrivendo una serie di casi concreti di violazione di diritti umani da parte delle ditte minerarie.
Gli avvenimenti riportati ricordano molto ciò che è successo negli ultimi 8 anni a San Juan Sacatepequez. Il report di Amnesty si conclude con raccomandazioni ai governi degli stati di origine delle imprese che realizzano attività in Guatemala, pretendendone la garanzia del rispetto dei diritti umani, sulla base delle normative internazionali. La speranza è che queste raccomandazioni vengano finalmente accolte.
La speranza è che il massacro del 19 settembre non si aggiunga semplicemente al lungo elenco di soprusi, vissuti a San Juan Sacatepequez come altrove. La speranza è che, prima o poi, la Dichiarazione dell’ONU sui Diritti dei Popoli indigeni, la convenzione 169 e tutte le altre norme internazionali non vengano soltanto pronunciate, firmate o ascoltate, ma vengano - finalmente – applicate.

Elisabetta Caglioni
Casco Bianco in Guatemala
ProgettoMondo Mlal

(foto di Ermina Martini e Stefano Pirovano)

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