venerdì 6 settembre 2013

Un pizzico di grinta e... cambieremmo il mondo!

Il Guatemala è un paese del Centroamerica la cui popolazione è costituita per il 60% da giovani. Mediamente in una famiglia ci sono 8 figli: dunque sono 16 le braccia che possono aiutare quelle dei genitori nel lavoro, ma anche 10 le bocche da sfamare con i prodotti di un appezzamento di terra che, di norma nei villaggi di campagna, abitati prevalentemente da contadini poveri, è piuttosto esiguo.
La parola “poveri” identifica infatti la stragrande maggioranza della popolazione guatemalteca, considerando che appena 12 sono le famiglie che detengono tutta la ricchezza del Paese. La classe sociale dei “poveri” si può dividere a sua volta in gradini, che costituiscono una piramide al cui vertice vi sono i poveri definibili “benestanti”, e alla cui base vi sono i miseri abitanti delle favelas che si cibano di scarti e sopravvivono tra malsanità e criminalità.
Nelle favelas, zone di periferia di grandi città dove si trovano costrette a sopravvivere famiglie di poveri, migrate dalle campagne in cerca di fortuna, le persone hanno perso la loro dignità: non hanno qualcosa in cui credere perché tutti i valori sono stati soffocati dalla fame e dalla sofferenza.
Le mafie prosperano e le armi circolano indisturbate, spesso anche tra le mani dei bambini. 8 bambini su 10 hanno ucciso qualcuno. Non è perciò così stupefacente scoprire che, ogni giorno in Guatemala, muoiono 17 persone ammazzate, anche se la guerra, con le sue liste nere, le sue stragi, i gringos è finita!
Mario Cardeñas e sua moglie Miki ne sanno qualcosa della guerra. L’hanno vissuta in prima persona e potrebbero stare ore e ore a raccontare la loro storia. Il nome di Mario compariva su una lista “nera” perchè con la sua attività nella cooperativa Katoki infastidiva la dittatura imperante e perciò andava eliminato. Visse per anni nascondendosi in una parte della casa isolata dal resto della famiglia così, se i soldati fossero venuti a prenderlo, non avrebbero ucciso anche Miki e i loro tre figli, Fredy, Alejandra e Mario José.
Fredy, il più grande dei tre, racconta che, al tempo, sua sorella che era molto piccola prima di andare a dormire si faceva leggere tutte le sere una fiaba dal papà. Un giorno quest’ultimo comprò un registratore e impresse sul nastro la sua voce, narrante alcune fiabe. Cosicché, anche se il papà non ci fosse più stato, Alejandra avrebbe potuto addormentarsi come sempre al dolce suono della sua voce. Fortunatamente la guerra non colpì nessuno della famiglia Cardeñas, che ha sempre continuato la sua lotta per un Guatemala migliore.
Oggi -spiega Fredy- il “rivoluzionario” è una figura ben diversa quella del “guerrigliero” che all’epoca aveva imbracciato le armi contro l’esercito del dittatore; in mano non ha più armi ma qualcosa di più utile per un Paese in cui vige ancora l’ignoranza: un quaderno e una penna.
L’educazione nelle scuole è infatti considerata la base fondamentale su cui costruire un nuovo Guatemala. Un Guatemala in cui i bambini possano sognare e creare, a partire dai loro sogni, progetti di vita per un futuro che abbia colori diversi da quelli delle piante di mais, di fagioli o di caffè tra le quali passano i loro giorni i genitori contadini. Un futuro che magari abbia i colori del legno, del ferro, dei tessuti, che i ragazzi imparano a lavorare nella scuola media Montecristo.
La situazione del Guatemala non è poi nemmeno così differente da quella italiana. Qui da noi, è vero, non ci sono le favelas, non c’è un tasso di mortalità giornaliero così elevato, l’ultima guerra è finita molti anni fa, ed esiste una classe media che, anche se con la crisi si sta sempre più assottigliando, fa in modo che non si crei un divario incolmabile tra ricchi e poveri. Ma in Italia esiste anche la mafia con i suoi immensi traffici di droghe e armi, esistono i campi rom dove le persone vivono in mezzo alla sporcizia e sono spesso vittime di discriminazioni, esistono molti politici corrotti che scaldano poltrone in Parlamento per fare solo i propri interessi, esiste il problema della disoccupazione e dei giovani, che già sono pochi e in più, non riuscendo qui a realizzare i propri sogni, se ne vanno all’estero, perché l’Italia non solo è un Paese di vecchi ma è anche un Paese per vecchi.
Dall’esperienza in Guatemala possiamo imparare a non rassegnarci e a credere in noi. In noi che possiamo sempre cambiare, migliorandoci, arricchendoci, in noi che dobbiamo avere il coraggio di portare avanti una lotta per lasciare ai nostri figli un mondo migliore di come lo abbiamo trovato. Basterebbe portarsi a casa un pizzico di quella grinta, di quell’energia positiva sprigionata dal discorso di Miki dell’ultimo nostro giorno in Guatemala per rendere il mondo un po’ migliore. Ne basterebbe soltanto un pizzico.

Alice Camoriano

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