venerdì 6 settembre 2013

Che i loro disegni siano realtà

Non resta molto alla conclusione di questo viaggio, cominciato solo 10 giorni fa ma che sembra stia durando un mese. Qui il tempo sembra avere un corso differente da quello che abbiamo abbandonato temporaneamente a Torino. Si ha la sensazione che le giornate durino all’infinito.
Arrivata qui, pensavo di trovarmi su un altro pianeta, fra paesaggi che mi erano sconosciuti, in mezzo a persone completamente diverse da me, e da chi solitamente mi circonda. Le prime differenze erano anche le più banali: una diversa carnagione, diverse fattezze, diversi abiti e diverse lingue; ma dietro tutto ciò si nascondono soprattutto altre tradizioni, credenze e convinzioni. Inoltre qui non esiste una comunità, idioma o abito tradizionale che primeggi, ma solo la convivenza fra 22 etnie diverse.
Qui ho incontrato madri che, coi loro figli, costeggiano la strada portando sul capo pesanti ceste di frutta e sulla schiena ciocchi di legna; bambine senza scarpe che girovagano per il mercato, donne intente a spargere incenso sul piazzale di una chiesa, uomini che a ogni età conoscono la violenza perché ne sono vittime o autori.
Ma al di là delle tante differenze rispetto alla mia cultura, sono stata colpita maggiormente dalla realtà che ho scoperto osservando i ragazzini del Cemoc pulire la scuola da cima a fondo e salutarmi timidamente, o da bambini che mi hanno raccontato di trascorrere i propri pomeriggi a svolgere le faccende domestiche in case e cucine di lamiera, o ancora da mucche e cavalli con le costole a vista e banchi nei mercati ricoperti di carne quasi putrida.
La sorpresa è stata ancora maggiore quando ho scoperto che esiste un’altra faccia di questa realtà, dove a fianco delle favelas sovrappopolate si estendono città costruite sul modello di quelle che si trovano duemila chilometri più a nord, luoghi dove la povertà sembra assente e i turisti paiono essere gli autoctoni. Questa contraddizione mi ha profondamente colpita e riesco a spiegarmela solamente se ascolto le parole di chi, come Mario, ha vissuto le vicende più turbolente di questo Paese, vedendo migliaia di civili morire per aver rivendicato le terre che per anni hanno coltivato e una decina di famiglie prendere in mano tutta la ricchezza disponibile, sfruttando i propri connazionali, gestendo traffici illegali e lasciando il resto della popolazione allo sbaraglio e senza risorse.
A tutti loro è stata negata per decenni una vita dignitosa, specie ai giovani che non possono godere di un’istruzione sufficiente, non hanno la possibilità di sognare, hanno il destino già segnato per volere delle loro famiglie o perché non esistono le possibilità di cambiarlo.
Mi fa perciò effetto pensare che, nel nostro Paese ma non solo, si è lottato per riappropriarsi di diritti negati, quando qui l’unica arma per rivendicarli, ossia l’istruzione, è purtroppo in mano ancora a pochi che si battono perché tutti possano accedervi. Stamattina, su un foglio appeso alla parete della scuola Mancheren, ho visto scritto che “senza educazione non si può avere dignità ”, e ho pensato a quanto sia importante averne la consapevolezza, e a quanto sia difficile realizzare il sogno dei fondatori del Cemoc, entusiasti già solo del fatto di veder un maggior numero di ragazzine che a tredici anni portano sulla spalle dei libri, e non un niño in fasce.
In fondo siamo venuti qui proprio per essere spettatori partecipi delle attività della scuola, osservare quali sono le risorse che offre e capire i vantaggi dell’educazione che si prefigge di regalare. Penso che ciò sia un ottimo modo per comprendere quali siano i reali problemi che affliggono il Guatemala e quali le possibili soluzioni, soprattutto per quanto riguarda le difficoltà per uno sviluppo socio-economico del Paese, in particolare dell’area rurale.
Una cosa che apprezzato dell’intera formazione ricevuta dai laboratori di ProgettoMondo Mlal è il modo in cui questa Ong opera: fornendo un aiuto costruttivo basato sull’educazione, sulla costruzione dei mezzi per poter lasciare, a chi ha bisogno di aiuto, le possibilità di farlo da sé, anziché offrire un temporaneo salvataggio passivo che non garantirà mai ai diretti interessati di potere poi andare avanti autonomamente.
Ho avuto la possibilità di cimentarmi in svariate attività che, per un verso o l’altro, ho apprezzato molto, perché non si sono limitate a divertirmi, ma mi hanno arricchita e fatta riflettere.
In cucina ho potuto dare un piccolo contributo nella preparazione dei pasti e, in cambio, ho ricevuto il piacere di cucinare, imparare alcune ricette e alcuni vocaboli in spagnolo, toccare con mano l’entusiasmo degli alunni della scuola durante le ore dedicate alle “porte aperte”.
Durante un paio di lezioni di inglese sono passata, per la prima volta, dalla parte del banco a quella della cattedra e così ho potuto partecipare in prima persona a come si svolgono le lezioni e, soprattutto, vivere la partecipazione degli studenti. Ho trovato un clima accogliente e ragazzini attenti e, una volta superata un po’ di timidezza, pronti a chiedere di essere aiutati.
È stato ancor più interessante un altro tipo di contatto con i piccoli guatemaltechi adottati a distanza dalle famiglie italiane. Inizialmente attraverso una breve intervista che servisse a definire le condizioni in cui vivono e poi durante le visite nelle singole case che hanno rivelato la povertà e le difficili situazioni familiari in cui vive la maggioranza della popolazione guatemalteca. Ma se in quell’occasione, viste le raccomandazioni e l’imbarazzo, mi ero trattenuta dal fare domande o mostrare simpatia nei confronti dei bambini, oggi mi sono divertita a osservare una settantina di piccoli studenti impegnati a rappresentare quello che per loro potesse essere un mondo migliore. Sui loro fogli non ho visto traccia di armi, lacrime o povertà, che sono parte integrante della loro realtà, ma solo antropomorfi sorridenti, paesaggi naturali, bambini sorridenti in attesa dei propri genitori e scritte di pace. Suppongo che anche i bambini italiani avrebbero fatto altrettanto, e per questo trovo ancora più ingiusto che per questi bambini guatemaltechi possa essere soltanto un sogno, che possano anche non conoscere mai un mondo senza violenza, povertà e pericolo.
Data la situazione di disagio in cui è costretta a vivere la gran parte della popolazione, è probabile che questi bambini concepiscano ancora meglio di noi la distanza tra il mondo in cui vivono e quello che hanno riprodotto sulla carta! Ecco mi piacerebbe poter permettere loro di pensare che il loro disegno è realizzabile. Non dovrebbero pensare alla pace, alla salute e al benessere come a un’utopia.

Giorgia Curtabbi

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