martedì 28 agosto 2012

Haiti, aspettando Isaac


L’apice di Isaac è stato raggiunto tra il pomeriggio di sabato e la domenica mattina: le piogge si sono prolungate fino alla domenica pomeriggio. La gran parte della città è rimasta senza elettricità.
Una prima visita in centro città, la domenica mattina, non ha rivelato danni catastrofici, ma molte sono state le vittime tra la popolazione che vive in condizioni precarie, soprattutto negli accampamenti umani che tuttora sussistono nella capitale.
Tra le zone più violentemente colpite le coste del Sud, in particolare del Sud-Est.
Sebbene la violenza del fenomeno sia stata contenuta rispetto al suo potenziale (la tempesta non si è trasformata come si temeva in uragano), il suo impatto sul Paese nel breve e medio periodo è rilevante.
Lunedì, il bilancio della situazione era di 19 morti e 6 dispersi, 22 feriti, poco meno di 16 mila persone evacuate, e di mille case inondate e 3 mila case distrutte e danneggiate. Il rischio di inondazioni e frane resta elevato: a Petit Goave, località del dipartimento dell’Ovest, tutti i fiumi sono straripati.
Il settore agricolo resta il più colpito in tutto il Paese, con ingenti perdite di bestiame e di piantagioni: danni dunque di medio periodo che aggravano la situazione produttiva del paese già resa difficile dalla siccità, e dunque peggiorano la situazione in termini di sicurezza alimentare.
Per giorni il Paese ha atteso il momento in cui si sarebbe abbattuta la depressione tropicale già ribattezzata “Isaac”. La tempesta proveniente dalla Martinica, si è spostata lentamente da Est a Ovest e, dopo il passaggio sulla Repubblica Dominicana e Haiti, si è diretta sulla Florida dove ha raggiunto il suo apice di intensità.
In questi casi, nell’isola che ospita la martoriata Haiti incombono rischi di differente natura e durata: morti e feriti tra la popolazione più vulnerabile, alloggi distrutti, infrastrutture e vie di comunicazione danneggiate, raccolti rovinati, inondazioni...
Nonostante tutto, la maggior parte della popolazione, soprattutto quella che vive in condizioni di povertà e di povertà estrema, rimane abbastanza estranea all’attività di prevenzione e preparazione. E sebbene l’atteggiamento potrebbe lasciare perplessi, spicca nella popolazione un fatalismo incredibile e giustificabile solo forse alla luce di un’esistenza perennemente vissuta in condizioni di rischio endemico e generalizzato.
Sono dunque i cooperanti e gli espatriati, le persone generalmente più preoccupate. Probabilmente perché meno pronte al rischio, o perché più consapevoli delle possibili conseguenze, e a volte anche per la maggiore inesperienza in fatto di fenomeni atmosferici in zona tropicale (il personale straniero va e viene dall’isola e mediamente non resta più di sei mesi), il che fa avvertire il rischio come più elevato.
E comunque le concause che potrebbero rendere l’impatto ancora più drammatico sono oggettivamente tante: l’elevata quantità di sfollati post-terremoto, l’endemica precarietà degli alloggi, e l’urbanizzazione selvaggia e incontrollata su pendici fragili e franose, il suolo impoverito e la deforestazione massiccia.
A Port-au-Prince alcuni intervistati, dall’apparenza inspiegabilmente tranquilla, affermano che in ogni caso, a essere investite, saranno le coste del Sud, senza calcolare che la distanza dalla capitale è minima. E che gli uragani in genere non seguono una direzione precisa e prestabilita.
Al fondo di tutto c’è anche la forte percezione religiosa che la popolazione locale ha nei confronti degli eventi atmosferici naturali, imprevedibili e non controllabili: una parte cospicua della popolazione è praticante, principalmente sono cristiani. Per loro è dunque considerato importante, a livello psicosociale e culturale, pregare e invocare il soccorso divino, singolarmente e in seno alla comunità, al fine di evitare la catastrofe o limitarne gli effetti.
Perché la popolazione è cosciente della propria impotenza, e l’affidarsi a Dio è dunque l’unica modalità con cui ci si sente di potere fare qualcosa, oltre che essere un modo per condividere il dramma o scongiurarne l’arrivo.
Dunque, nei giorni precedenti il 24 agosto, data annunciata per l’arrivo di Isaac, gli abitanti di Port-au-Prince attendevano senza troppa ansia tanto che, spesso, quando domandavo se non fossero preoccupati, faticavano anche a capire a cosa esattamente mi riferissi. Dopodiché, cominciavano a ironizzare sull’Alea e sul fatto che Isaac potesse colpire un’altra zona rispetto a quella dove vivono loro...
Alla vigilia, però, la gente (o, almeno, quella che ha i mezzi per permetterselo) affollava più del solito i supermercati. Anche tra i miei colleghi haitiani non è mancato chi, un paio di ore prima dell’orario fatidico, ha deciso di lasciare la capitale per raggiungere Petit Goave (in scalcinati bus pubblici). Ma, generalmente, per chi ha un alloggio sicuro la routine è proseguita normale fino a mezzogiorno, con uffici e banche aperte, gente in strada, regolarmente.
D’altra parte nella mattinata del 24 agosto su P-au-P splende un magnifico sole!
Verso le 11 inizia a soffiare il vento, la gente guarda il cielo, comincia a calcolare i tempi.
Gli impiegati lasciano gli uffici perché, spesso ci vogliono 3 ore per rientrare a casa a causa del traffico congestionato della capitale. E, a partire dalle 14, la tempesta potrebbe giungere in qualsiasi momento.
Per la parte di popolazione che vive in condizioni di povertà, questo fatalismo è ancora più palpabile. Sembrano ritenere che la tragedia possa essere affrontata soltanto dopo che si è verificata, e la cultura della prevenzione non sembra troppo radicata.
Inoltre a mancanza di reali possibilità e capacità di prevenire il danno, fanno sì che non si possa fare altro che attendere. E d’altra parte, spesso, viene annunciata una tempesta che poi non si materializza, inutile o impossibile interrompere ogni volta la routine e il ciclo di sopravvivenza quotidiano.
La concentrazione è dunque forte sull’immediato senza considerare che i danni potrebbero ripercuotersi nel medio periodo. Così le istituzioni si preparano per rispondere all’emergenza, ma il problema vero sarà dopo, con la paralisi causata dai danni alle infrastrutture, alle vie di comunicazione, alle coltivazioni, al commercio.
Il Segretariato di gestione dei rischi e disastri si è assunto un ulteriore sforzo, impegnando 2.000.000 di Gourdes (58 Gd= 1 €) per rispondere al possibile disastro e, in accordo con il Ministero della Salute pubblica, tutti gli ospedali dovranno restare aperti 24 h/24.
Attraverso la voce del Primo Ministro Lamothe, il governo haitiano incoraggia la popolazione a tenersi informata sull’evoluzione del fenomeno e sulle misure d’emergenza prese dal Governo. La stampa annuncia che sono stati allestiti 1.250 alloggi temporanei e attivati 3 mila volontari e 32 battelli di soccorso per soccorrere le vittime della potenziale tragedia.
Nonostante tutte le iniziative da parte di Protezione Civile e Governo, “la maggior parte delle vittime trovano la morte attraversando un fiume che si gonfia improvvisamente”, come denuncia la responsabile della Direzione della Protezione Civile.
Per questo motivo le istituzioni pregano la popolazione di non restare sorda ai consigli della Protezione Civile mettendo a rischio la propria vita.
Da parte nostra non possiamo che chiederci se realmente le campagne di sensibilizzazione arrivino alla gente, se l’informazione sia corretta diffusa con i mezzi appropriati, e se serva davvero  qualcosa.
Non c’è dubbio infatti che, di fatto, sono le stesse condizioni di vita e abitative che rendono massima la precarietà e la vulnerabilità della popolazione. 
Né possiamo nasconderci che l’enfasi sull’emergenza e la catastrofe, diffuse dalle Ong internazionali e dalle istituzioni sono anche un modo per tenere acceso e vivo l’interesse dei finanziatori internazionali sul Paese, visto che, da sempre l’emergenza richiama, e fa concentrare sul Paese, ingenti somme di denaro, più di quelle attirate dagli interventi di sviluppo a lungo termine.
E ora, qui, dai nostri alloggi sicuri, guardando il cielo che ingrigisce e il vento che soffia, ci chiediamo cosa ci riserverà questa giornata e cosa troveremo per le strade quando sarà passata di qui la tempesta. 

Petra Bonometti
ProgettoMondo Mlal Haiti

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