giovedì 10 maggio 2012

Amina e la Forza delle donne

Tradizioni, contraddizioni e ostacoli da abbattere nella cultura marocchina. E il caso di Amina Filali, la giovane 16enne che si è tolta la vita lo scorso 10 marzo a Chourfa, nel nord del Marocco, dopo il matrimonio forzato con l’uomo che l’aveva violentata un anno prima. Punti di partenza per una riflessione aperta e non sempre facile di alcune partecipanti al percorso di formazione sui Diritti Umani che ProgettoMondo Mlal, nell’ambito del progetto “La Forza delle Donne”, sta tenendo a Beni Mellal e Khouribga.
Secondo l’articolo 475 del Codice Penale marocchino, “Chiunque, senza violenze, minacce o frodi, rapisce o violenta, o tenta di rapire o di deviare un minore di diciotto anni, è punito con la detenzione da uno a cinque anni e con una ammenda da 200 a 500 dirham. Quando una minorenne nubile, rapita o violentata, ha sposato il suo rapitore, costui non può essere perseguito, se non dietro denuncia delle persone aventi diritto di richiedere l’annullamento del matrimonio, e non può essere condannato se non dopo l’avvenuto annullamento del matrimonio”.
Costretta a vivere in un contesto e in una condizione che non riconoscevano il dramma da lei subito (quando non la identificavano addirittura come la colpevole, per aver assunto atteggiamenti che avevano indotto il futuro marito Mustapha ad abusare di lei), Amina ha scelto di mettere fine tragicamente alla sua vita.
Si possono incontrare casi come questo nella società marocchina che, pur avendo gli strumenti legali per reagire a situazioni simili nel rispetto dei Diritti dell’individuo (ad esempio l’articolo 486 del Codice Penale, che definisce lo stupro e le modalità con cui deve essere punito), si piega spesso a convenzioni e tabù che umiliano le vittime di violenze sessuali. La minaccia dello scandalo e della conseguente perdita dell’onore diventa quindi più forte della rivendicazione della giustizia.
La reazione che è seguita alla morte di Amina a livello di media e società civile, però, è stata un segnale importante per tutto il Paese. Nelle settimane successive, infatti, i giornali si sono animati di articoli sulla vicenda e tutte le reti nazionali hanno dato ampio spazio alla notizia, da cui sono scaturiti numerosi dibattiti. Sui social network si sono susseguite iniziative personali e di gruppi per protestare contro la seconda parte dell’articolo 475 e contro le contraddizioni di un Paese che, pur avendo adottato il 17 giugno scorso una nuova Costituzione in cui si stabilisce l’uguaglianza tra i sessi, si scontra ancora con credenze vessatorie nei confronti delle donne.
Anche la mobilitazione della società civile marocchina è stata pronta e significativa. Numerose associazioni, quali la Fédération de la Ligue démocratique pour les droits de la femme, l’Association démocratique des femmes du Maroc, la coalizione del “Printemps de la dignité”, la rete Avaaz, hanno organizzato manifestazioni e sit-in nei maggiori centri urbani (il raduno più importante si è svolto a Rabat, di fronte al Parlamento), proposto petizioni per l’abrogazione dell’articolo 475 e pubblicato comunicati per condannare quanto accaduto.
Il dramma di Amina, però, non è rimasto solo una questione interna marocchina: anche l’ONU e l’Unicef e alcune ONG internazionali, come Global Rights, hanno voluto sottolineare la necessità di riformare la giustizia e le istituzioni per assicurare i diritti di donne e bambini, attraverso comunicati diffusi pochi giorni dopo la morte della ragazza.
L’intervento della società civile marocchina e internazionale lascia intendere che la sensibilità rispetto all’argomento è profonda e che si intende fare pressione sul governo perché istituzioni e legge non lascino spazio ad alcuna ambiguità.
D’altra parte, diversi esponenti politici, sia del Governo che dell’Opposizione, si sono espressi con termini molto duri rispetto alla vicenda di Amina Filali. Mustapha al Khalfi, Ministro della Comunicazione e Portavoce del governo, e Bassima Hakkaoui, Ministro della Solidarietà, della Donna e della Famiglia e unica donna membro dell’attuale governo, hanno condannato quanto accaduto e riconosciuto pubblicamente la necessità di modificare il testo dell’articolo 475 in tempi brevi.
Ciononostante, la visione tradizionalista della figura e del ruolo della donna e del matrimonio, che si riflette inevitabilmente su gravi questioni come la violenza sessuale, appare lontana dal poter essere archiviata. Lo dimostra il fatto che il 16 marzo il Ministro della Giustizia marocchino Mustapha Ramid ha ritenuto necessario difendere la scelta del procuratore di applicare l’articolo 475 del Codice Penale al caso di Amina, sostenendo che la giovane si era dichiarata consenziente sia per il matrimonio che rispetto ai rapporti avuti in precedenza (salvo ritornare sui suoi passi, dopo l’insistente protesta delle ONG marocchine e internazionali seguita alle dichiarazioni del Ministro).
Per comprendere la posizione della popolazione locale, quindi, abbiamo intervistato alcune partecipanti al percorso di formazione sui Diritti Umani nell’ambito del progetto “La Forza delle Donne”.
Questo percorso in 4 sedute, che si svolge anche in altre due città del nord (Khemisset e Meknès), è rivolto ai quadri e ai membri delle associazioni locali e, partendo da un approccio generico ai Diritti Umani e ai relativi strumenti giuridici, avvicina progressivamente il tema dei Diritti di Genere e della situazione della donna in Marocco, cercando di creare una maggiore coscienza e di stimolare delle riflessioni tra i partecipanti. Le Convenzioni, i Protocolli e gli altri strumenti relativi ai Diritti della Donna e la situazione della Donna in Marocco rispetto a questi strumenti sono stati proprio i temi trattati durante gli atelier di aprile a Beni Mellal e Khouribga.
Da qui l’idea di porre qualche domanda sul caso di Amina Filali alle partecipanti, essendo un argomento che si inserisce totalmente nelle attività proposte dal percorso.
Il quadro che ne è uscito conferma l’ambiguità della realtà marocchina in cui, accanto alla coscienza delle problematiche da affrontare e alla volontà di arrivare al pieno rispetto dei Diritti Umani dimostrate da un’ampia fetta della società, restano ancora da abbattere gli ostacoli dati dalla cultura tradizionalista, soprattutto in alcune zone.
Nelle associazioni di Khouribga, infatti, il caso di Amina è stato discusso solo in maniera informale tra i membri delle associazioni, senza essere inserito nell’ordine del giorno, e non sono state promosse iniziative a riguardo. Questo nonostante le stesse partecipanti abbiano ammesso che questo tema tocca anche la loro regione. In passato, infatti, è capitato che alcune donne, costrette a sposarsi col loro violentatore, si siano rivolte alle associazioni, per avere un supporto psicologico o che abbiano raccontato la loro storia, pur essendo entrate in contatto con i membri delle associazioni per altri motivi. Ma queste donne hanno sempre parlato della loro situazione in modo confidenziale, senza voler procedere contro il marito, per timore di quello che la famiglia e la comunità avrebbe potuto dire e della reazione del marito.
Alcune associazioni di Beni Mellal, invece, hanno partecipato a una manifestazione che si è tenuta poco dopo la morte di Amina Filali davanti al tribunale della città, per chiedere la modifica dell’articolo 475 e in sostegno di un’altra ragazza di 15 anni, Oumayma, di Zaouiat Cheikh (un villaggio a 65 km da Beni Mellal), il cui caso ha cominciato a far discutere nella provincia proprio nello stesso periodo di Amina. Un insegnante della sua scuola, infatti, ha abusato di lei per tre anni e, intimorita dalle minacce dell’uomo, la giovane ha taciuto fino a quando non è riuscita a confidarsi con un’amica. Molti altri casi come questo non vengono a galla proprio a causa delle paure che affliggono le vittime di abusi, non solo per i traumi subiti dai loro violentatori, ma anche rispetto alla reazione che potrebbe avere la comunità.
È da sottolineare anche il fatto che, in caso di denuncia, per queste donne è difficile riuscire ad avere accesso a servizi fondamentali, quali l’accoglienza in centri dedicati alle vittime di abuso, la garanzia di essere seguite da avvocati specialisti o la possibilità di seguire un percorso di inserimento lavorativo che fornisca loro l’indipendenza economica. Il mondo associativo, infatti, molto spesso non ha i mezzi per dare sostegno a chi ricorre al suo aiuto. Non a caso il 60% delle domande di divorzio che vengono presentate tramite le organizzazioni da donne vittime di maltrattamenti viene in seguito ritirato, proprio per la mancanza di capacità di tutela da parte delle associazioni e delle istituzioni.
Il caso di Amina Filali, quindi, è sicuramente servito come detonatore, per attirare l’attenzione della società civile, del governo e della società intera su questo tema, ma sono ancora molti gli sforzi da compiere per rompere il silenzio che spesso costringe queste giovani ragazze a nascondere i loro drammi. Come ha osservato una delle partecipanti alla formazione di Beni Mellal, è importante riuscire a create un network di associazioni, a livello sia regionale che nazionale, che possa dare un reale supporto alle donne che subiscono questo genere di violenze e che riesca ad avere peso in un dialogo tra tutti le parti per un cambiamento sociale. Altro passo fondamentale che bisogna riuscire a compiere è far in modo che le donne abbiano fiducia nella comunità e nei mezzi a loro disposizione, facendo loro capire che denunciare questi abusi e trovare giustizia è necessario non solo per loro stesse, ma per l’intera società marocchina.

Giulia Pezzato
Casco Bianco
ProgettoMondo Mlal Marocco

Nessun commento:

Posta un commento