martedì 1 marzo 2011

Caschi bianchi in Guatemala. L'avventura è iniziata

Appena arrivati in Guatemala e già protagonisti a tutti gli effetti. Sono due i caschi bianchi partiti una decina di giorni fa per svolgere un anno di servizio civile nel programma di cooperazione alla sviluppo “Edad de Oro Montecristo” avviato da ProgettoMondo Mlal per garantire l’istruzione e un’alimentazione adeguata ai bambini del dipartimento di Chimaltenango.
Edoardo Buonerba, giovane della provincia di Roma, è già stato contattato dalla redazione di “Mentre” per un’intervista che andrà in onda il prossimo 8 marzo su tv2000 sulla sua esperienza appena avviata nel Paese, mentre è di Marco Ferrero, suo alter ego torinese sul campo, il racconto, a freddo, sul primo impatto con il Guatemala e il progetto che lo accoglierà per un anno.
Ecco quanto scrive:
“13 ore di viaggio, 3 paesi, 2 continenti, ma alla fine posso dire eccoci!
La cosa che mi colpisce poco prima di atterrare in Guatemala è l’immagine di una miriade di case in stile bidonvilles unita a quella dei vecchi aerei ed elicotteri parcheggiati ai lati della pista dell’aeroporto: scene viste solo in tv e che ora si palesano davanti ai miei occhi. Mi rendo poi conto che la città è situata a un’altezza non indifferente (1500 metri!) e che lo strapiombo che interrompe la non tanto lunga pista è lì a testimoniarlo. Ringrazio il pilota della lucidità e mi avvio a recuperare il bagaglio imbarcato a Torino, sembra ormai secoli prima.
Il bagaglio, appunto, questo sconosciuto. Passo interminabili minuti in compagnia di altri sventurati aspettando un bagaglio che non arriverà: un simpatico inserviente ci spiega che arriveranno il giorno dopo con l’aereo seguente, quello di Edoardo guarda caso. Faccio la denuncia e mi dirigo all’uscita dove un signore (Mario Cardenas) tiene un cartello con su scritto il mio nome. Lui, la moglie (Micaela) e il figlio (anche lui Mario) sono venuti gentilmente a prendermi per portarmi a casa loro dove starò insieme ad Edo per i primi giorni.
Ci infiliamo in auto rimanendo subito imbottigliati in un traffico che chiamare intenso è veramente poco. Un mare di auto, bus e quant’altro, insomma molti mezzi che in Italia avrebbero già fatto il loro tempo e che qua continuano a vivere finché non esaleranno l’ultimo respiro. La mia attenzione cade sul tipo di autobus: sono quasi tutti vecchi scuolabus americani, quelli che si vedono nei film per intenderci; alcuni hanno addirittura la scritta “school” di “school bus” cancellata alla buona con uno spray nero; altri invece sembrano “preparati” da gara con adesivi e pezzi di carrozzeria sportivi; quasi tutti hanno un riferimento religioso cattolico, una scritta oppure un’immagine sacra.
Ovviamente c’è chi approfitta della coda forzata: sono i venditori ambulanti che tentano di fare qualche affare vendendo soprattutto cibo. Non mancano poi i “cartelloni viventi componibili”, ovvero 4 persone con una parte di cartello ciascuno sulla schiena a formare un unico cartello pubblicitario: uno di loro, evidentemente il più basso dei colleghi, ha sotto ogni scarpa un artigianale rialzo in legno. A contare i cartelloni dei candidati, si direbbe che si è già in campagna elettorale, nonostante manchino ancora sette mesi alla data fissata per le consultazioni (settembre).
La guida è a dir poco aggressiva, chi si ferma è perduto e le regole base della scuola guida qui non valgono. Fortunatamente dopo “solamente” un’ora circa di coda usciamo dalla città e il traffico è subito più scorrevole: la strada inizia a salire ed è tutta curve. Su di un bus stracolmo ci sono persone che, pur di non aspettare il mezzo successivo, rimangono aggrappate alla parte posteriore e laterale. Un’idea spericolata che mette i brividi solo a vederla e che Mario non esita a stigmatizzare.
Arriviamo alla fine sulla famosa Panamericana, la strada che collega gli estremi del nord e sud America. È una strada piena di tutto, dalle bici ai motorini, dagli immancabili bus alle “Ape” Piaggio usate come taxi, dai negozi con le sbarre di sicurezza a copertura totale alla gente che cammina ai lati della strada incurante del pericolo di essere investita a causa della scarsa o nulla illuminazione e dell’assenza di un marciapiede. Altro particolare: dall’aeroporto a casa Cardenas non ho visto un solo semaforo.
Arriviamo a casa che è ormai ora di cena e non rifiuto l’ennesimo pasto della giornata: frijoles (fagioli) e chorizo (salsiccia) che di sicuro non aiuteranno a prendere sonno ma pazienza, tanto per il mio fuso orario è notte fonda quindi non importa.
La cena pare proprio un momento da condividere tutti insieme chiacchierando. E’ l’unico pasto in cui tutti (o quasi) si riuniscono a tavola: padre, madre, figlio, figlia (Alejandra, la responsabile del centro Montecristo) e 2 nipotine (sue figlie); manca solamente il marito di Alejandra che torna tardi la sera e parte presto la mattina; il figlio più grande, Fredy, vive vicino con la sua famiglia e cena con i genitori solo il venerdì sera, giornata clou di riunione per i de Cardenas.
Nel primo approccio non noto particolari problemi con la lingua: a volte non capisco una parola perché in Spagna ne utilizzano un’altra per riferirsi alla stessa cosa, però è solo questione di poco per creare una nuova associazione di idee che mi aiuti a ricordarla; usano molti diminutivi, come ahorita, casita, etc.; finalmente qua posso usare il “lei” (usted) che in Spagna avevo solo studiato sui libri di grammatica e quasi mai usato, anche se a dire il vero qua si utilizza anche con altri significati (ad esempio al posto di vosotros si usa ustedes); la cosa che mi fa piacere è che la parlata è davvero chiara, molto rilassata, quasi scandita, una cosa che in Andalusia me la potevo solamente sognare.
La casa non è affatto male, devo solo stare attento alla testa, data l’altezza limitata delle porte. Ancora quattro chiacchiere, un po’ di televisione, qualche video su Youtube che Mario jr vuole mostrarmi e, alle 9 di sera (le 4 di mattina per me), sfinito, vado a dormire. Riesco a dormire 12 ore riuscendo così ad attenuare il jet leg.
Alle 9 di mattina di nuovo in piedi, una doccia e la giornata può iniziare (con gli stessi vestiti del giorno prima, quelli nuovi sono nella valigia, in viaggio si spera).
Pancakes e marmellata fatta in casa per colazione con caffè classico americano ad accompagnare il tutto: sarà il mio fedele compagno di viaggio in quest’avventura. Chi ama l’Espresso non può nemmeno vedere questa brodaglia ma io per fortuna non sono schizzinoso.
Si parte per visitare il centro Montecristo percorrendo in pick up i 6 km di sterrato, così polveroso che ti si secca la pelle e la respirazione diventa più faticosa: finestrini quindi rigorosamente chiusi quando si incrocia un’altra auto. Mi dicono però che la strada è molto migliorata rispetto a qualche anno fa. Una volta arrivati, mi presentano al personale di servizio, segretarie e professori.
Alcuni di loro mi rispondono “per servirla” tenendo lo sguardo basso: sembrano più in soggezione di quanto non lo sia io... Faccio un giro esplorativo della struttura, accompagnato prima da Alejandra poi da Fredy. Ci sono 3 aule per la lezione ordinaria (primo, secondo e terzo livello), un salone grande per le presentazioni (con annesse le bandiere di Italia, Europa, Pace e Guatemala), infermeria (con un’infermiera sempre presente e una dottoressa ogni lunedì), laboratori vari, mensa, campo da calcio/basket/volley, orto, un vivaio e una piccola fattoria; ci sono anche tre stanze da letto contigue all’infermeria disponibili ad accogliere eventuali ospiti ma, visto l’isolamento che caratterizza il posto, non insisterò per venirci io. A ogni passo che faccio sento addosso a me gli occhi di tutti. Ma è normale, sono ancora un animale misterioso per loro (non solo per i bambini): la statura poi non aiuta a passare inosservato.
Noto poi una parete con degli attestati, alcuni dei quali di origine italiana come quello di un concorso di disegno in collaborazione con una cooperativa di Brescia. E non posso ignorare la miriade di simboli religiosi: come la madonna in giardino e un enorme rosario attaccato alla parete di un laboratorio.
Presto però finisce il momento relax e si inizia a lavorare: Fredy mi chiede di aiutarlo nelle sue mansioni e, anche per me, la voglia di mostrarmi utile è tanta. Mi porge guanti e cappello da baseball: eccomi pronto per affrontare il sole di mezzogiorno, particolarmente forte qua (se penso che in Italia fa freddo e io sono in t-shirt…!). Prima aiuto lui e l’altro suo assistente nel montaggio di una lamiera di ferro sul tetto di un laboratorio; poi si va tutti e 3 in pick up a raccogliere sassi a valle, al lato del fiume, scendendo per una strada stretta in forte pendenza e guadando il fiume a causa della mancanza del ponte, crollato anni prima; risaliamo e sistemiamo le pietre nella serra adibita ad accogliere farfalle, aiutati in questo da un gruppetto di ragazzini che sembrano entusiasti di svolgere un’attività un po’ diversa dal solito, e curiosi di capire chi sia quel nuovo ragazzo così alto e cosa sia venuto a fare lì da loro. Così, dopo aver spostato le pietre formando una catena umana, rimane un’ultima cosa, ovvero spostare un pesantissimo lavello in pietra infossato nella terra, cosa che riusciamo a fare solamente in quattro e non senza difficoltà.
Le scarpe eleganti che avevo sono tutte piene di terra così come i jeans: spero proprio che la mia valigia sia sull’aereo di Edo.
All’una tutti a tavola dove, nemmeno a farlo apposta, hanno cucinato pastasciutta. Mi colpisce il fatto che “buon appetito” venga detto all’inizio e alla fine, mentre ci si alza da tavola (capita anche di sentire “grazie” come forma di congedo). Quello del pasto sembra davvero un momento importante per loro, qualcosa di sacro che noi ormai consideriamo scontato e che qua non lo è.
Per un attimo mi torna quella sensazione di malinconia provata anche due anni fa, di quando ci si trova soli in un paese straniero, e lontani dai luoghi in cui si è cresciuti e dalle persone care. Terminato il pranzo con un caffè mi siedo al tavolo di uno dei porticati aspettando che Mario arrivi per portarmi all’aeroporto. I bambini che mano a mano passano mi salutano ossequiosamente.
È già ora di partire e lungo la strada impossibile non sentire dossi e crateri, non solamente sulla parte sterrata. Anche i cani randagi non passano inosservati, sono veramente tanti e a volte finiscono sotto un’auto: oggi la carcassa di uno di loro fa mostra di sé sulla Panamericana. Con la luce del giorno si possono poi vedere meglio i vulcani intravisti il giorno prima. Pare proprio che questo paese sia ricco di cose da vedere e non posso che esserne felice.
Edo esce dalla porta del Terminal con le sue valigie rilassato. Niente problemi per lui. Io aspetto che escano gli inservienti con i bagagli rimasti. E dopo un po’ vedo il mio bagaglio arrivare insieme ad altri. Vedo anche che è stato aperto: l’attacco del lucchetto sulla cerniera è rotto e, all’interno della valigia, la roba rimessa dentro un po’ alla rinfusa. Pazienza, l’importante è avere recuperato il tutto. Il giorno dopo era dedicato alla nostra presentazione a tutti gli studenti del Centro: i ragazzini ridono, parlano tra loro guardandoci, ma solo uno vince la timidezza e ci dà il benvenuto dopo che noi abbiamo parlato prima un po’ di noi. Ora siamo della famiglia!
Al Centro c’è sempre qualcosa da fare e il tempo non basta mai: questa volta dobbiamo sistemare il pollaio della piccola fattoria.
Alla fine del pranzo c’è una gradita sorpresa: un bicchiere di Coca Cola o Pepsi per tutti. Andiamo poi fuori a digerire, i ragazzini mi chiedono di giocare a calcio e non mi tiro indietro. Forse avrei fatto meglio a dire no visto che, complice un mio errore, la squadra avversaria segna e vince.
Nell’occasione, però, con Edo ho modo di conoscere Melvin, un simpatico ragazzino che ci spiega come al mattino si alzi prima dell’alba, molto prima di andare a scuola cioè, per allenarsi e quindi potere partecipare a gare di atletica. Passiamo poi il pomeriggio tra il trasloco di tutto il materiale da cancelleria da una parte all’altra del Centro, una buona dose di relax seduti al tavolo del porticato bevendo caffè e familiarizzando con un nuovo Progetto davvero interessante per promuovere una cittadinanza maggiormente attiva degli alunni: due gruppi di studenti si affronteranno durante le elezioni politiche corredate dalla consueta campagna elettorale e sotto la supervisione di un’insegnante.
Il terzo giorno andiamo a vedere quella che sarà la nostra dimora per i prossimi mesi. Sembra una casa troppo grande per sole due persone, ma va bene così. In questo modo si scongiurano i rischi dovuti all’eccessiva vicinanza.
Il tempo di un salto alla cooperativa Katoki, che gestisce il Centro Montecristo e che è situata giusto a lato dell’ufficio ProgettoMondo Mlal, per un infruttuoso tentativo di cambio valuta, e poi via a lavorare.
A essere onesti, in questo caso, l’unico sforzo è costituito dallo scattare foto durante l’attesa finale del torneo di calcio, partita valida per il 3° posto, occasione che ci consente di scambiare impressioni con i ragazzini in tribuna con noi, e di entrare sempre più in confidenza con loro.
Fredy ci racconta di come il Centro venda i propri pomodori al mercato. L’idea ci pare davvero ingegnosa, poi appena ci dice che la sveglia è alle 4 del mattino… Il nostro entusiasmo cala immediatamente e gentilmente decliniamo. Quello che però non possiamo rifiutare è l’incarico dell’acquisto e di trasporto di 24 galline a 60 quetzales l’una (circa 6 euro). L’indomani infatti si va in Centro con il pick up a comprare galline per il pollaio.
Il centro di Chimaltenango è trafficato in modo spaventoso, c’è l’immancabile mercato dove si può comprare di tutto, ci sono venditori per strada (dire “abusivi” parrebbe fuori luogo) e moltissimi negozi, quasi tutti con qualche riferimento religioso, soprattutto nelle scritte. Caricate le galline (Edo è lesto a ributtare nel pick up le avventuriere che tentano la fuga) ci dirigiamo verso il Centro e le trasbordiamo, una a una, dal mezzo al pollaio: se Edo pare sicuro di sé e affidabile, io lo sono un po’ meno anche se alla fine comunque riesco nell’intento.
Prima di passare a prenderci, Fredy ha avuto il tempo di comprare 2 maialini: sono davvero carini ma meglio non affezionarsi troppo, vista la sorte che li aspetta nel giro di pochi mesi…
Prima del pranzo abbiamo il tempo di dividere il mangime delle galline in sacchetti da 4 libbre l’uno, di raccogliere delle piantine di caffè dal bosco e di sistemarle nel vivaio.
Un’attività che finiamo nel pomeriggio giusto poco prima di un acquazzone che renda superfluo il nostro lavoro di giardinaggio: poco male, la pioggia era attesa con ansia da molto tempo.
È venerdì sera, appuntamento settimanale in cui tutta la famiglia Cardenas si riunisce per cena. Non possono mancare nemmeno tortillas e frijoles.
La serata passa tra aneddoti divertenti sull’infanzia di Fredy, Alejandra e Mario jr, e altri molto meno divertenti: Mario jr, aspirante medico, ci racconta del lavoro in ospedale al reparto psichiatrico criminale dove capita che i custodi abusino sessualmente delle pazienti, vendano droga e lascino passare armi ai pazienti-reclusi; ci lascia basiti la storia di un 18enne che ha ucciso 6 giovani tutti sotto i 15 anni e che ha due tatuaggi, una lacrima a fianco dell’occhio (forse a simboleggiare il fatto di essere un assassino) e tre punti posti su una mano (a simboleggiare quello che si è disposti a subire, ovvero l’ospedale, il carcere e la morte). Poco prima di andare a dormire riesco ancora a sentire la storia di un uomo che ha ucciso moglie e figlie spinto da voci che chiedevano un sacrificio umano.
Il sabato pare festa: colazione con uova e ancora fagioli. Micaela ci spiega che i primi giorni avevano fatto un’eccezione per noi, servendo pane, burro e marmellata. La loro vera colazione insomma è quella.
Nel pomeriggio è previsto al Centro un incontro mensile con i genitori degli studenti, un’ottima occasione di conoscerci ma anche di capire ciò che i genitori pensano e si aspettano dai figli e di come interagire con loro in modo più consono.

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