lunedì 6 settembre 2010

I volti dei minatori cileni fanno tornare alla realtà

Viaggiando per il deserto del nord del Cile, dove si trova la cittadina di Copiapò diventata famosa in questi giorni per la tragedia dei 33 minatori imprigionati sottoterra, ci si chiede come sia possibile vivere in un posto del genere. Non si vedono alberi, né acqua, né campi coltivati. Solo montagne brulle, distese sconfinate di polvere e pietre a perdita d’occhio. La ricchezza sta nel sottosuolo, ed è enorme, tanto da fare del Cile il primo produttore mondiale di rame e uno dei primi di oro.
Questo tesoro nascosto, già dai primi anni del Novecento, ha attirato grandi investimenti dai paesi ricchi, le cui multinazionali ancora oggi, approfittando di regimi fiscali vantaggiosi, ricavano enormi profitti dall’estrazione di questi minerali. L’industria estrattiva rimane di gran lunga la prima fonte di ingresso per il Paese, e il prezzo del rame sui mercati internazionali è il vero indicatore da cui dipende l’intera economia interna. I servizi sociali, le pensioni, la scuola pubblica, l’esercito, sono in gran parte finanziati dai guadagni dell’industria mineraria, che è regolata da un ministero ad hoc. Gli enormi progressi tecnologici dell’ultimo secolo hanno permesso lo sviluppo di professioni molto specializzate, e sicuramente quello dell’ingegnere minerario è uno dei lavori meglio retribuiti e con maggiore stabilità.
Ma dove ci sono miniere, naturalmente, ci sono soprattutto i minatori. Anche Che Guevara, nel suo viaggio per il Sudamerica immortalato nel film “ I diari della motocicletta”, incontra, proprio vicino a Copiapò, una coppia di minatori, e quell’incontro sarà uno dei più intensi ed emotivi per il giovane, che durante il suo viaggio inizia a prendere coscienza delle condizioni di ingiustizia e oppressione in cui è costretta a vivere la gran parte della popolazione del continente.
La storia del Cile è attraversata e profondamente influenzata dalle vicende dei minatori, immigrati al nord da tutto il paese a partire dagli anni ’20, vittime di abusi e addirittura di repressioni sfociate in massacri, ma sempre all’avanguardia nella lotta per i loro diritti e per migliori condizioni di lavoro. Le loro lotte e la loro coscienza di classe ne fecero uno dei pilastri dell’Unidad Popular di Salvador Allende, quando conobbero il momento di maggior riconoscimento del loro ruolo nella società. Durante la terribile dittatura di Pinochet che seguì, pagarono un prezzo altissimo in diritti negati e vite spezzate.
In questi giorni le televisioni di tutto il mondo mostrano i volti dei 33 minatori imprigionati sottoterra, che sbucano dall’oscurità per rassicurare i loro familiari e fare loro coraggio. “Stiamo bene, siamo tranquilli, non abbandonateci”, ripetono. Sono frasi intrise di speranza, ma anche di rassegnazione e fatalismo. I minatori sanno che il crollo della galleria che li terrà imprigionati almeno per altri 3-4 mesi, si deve a una negligenza dell’azienda. Sanno che per i primi 15 giorni dopo il crollo nessuno ha dato l’allarme o si è mobilitato per aiutarli. Probabilmente non sono al corrente che i proprietari della miniera stanno negoziando con il governo affinché questo si faccia carico dei loro stipendi, dato che nei prossimi mesi non saranno “produttivi”. E sicuramente non si rendono conto che il governo stesso, in crisi di consenso, sta utilizzando la loro tragedia a fini propagandistici per migliorare la propria immagine.
Quei volti ci fanno tornare alla realtà. Il loro lavoro, durissimo e pericoloso nonostante i progressi tecnologici, era invisibile. Solo una casualità come il crollo di una galleria lo ha riportato in prima pagina, e ha rimesso al centro dell’attenzione il loro sfruttamento, le difficili condizioni di vita, e la dinamica che non sembra essere molto cambiata negli ultimi 100 anni, che considera i minatori come l’ultimo anello di una catena che arricchisce pochi con il lavoro di molti.

Francesco Pulejo
già cooperante ProgettoMondo Mlal in Cile

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