mercoledì 27 gennaio 2010

16.52 del 12 gennaio: un minuto senza fine

È una catastrofe talmente immensa che vi chiedo di perdonare queste parole, scritte così a caldo, e che forse hanno ancora troppo di personale…
A Port au Prince, generalmente a fine giornata, la popolazione si trova nei luoghi più diversi. Così è stato il pomeriggio del 12 gennaio. Io uscivo da una riunione con i responsabili nazionali dei Piani comunali sul nuovo Progetto di sviluppo in partenza a marzo.
Alle 16.52, mi trovavo nel parcheggio d’un piccolo supermercato, a due passi da una scuola. Niente lasciava immaginare la catastrofe che stava per avvenire: il terremoto, a differenza di un uragano, non viene preannunciato alla radio.
In solo un minuto la mia vita, e quella di milioni di persone, è stata sconvolta. La prima scossa è stata totalmente inattesa, terribilmente forte, come un’esplosione.
E in pochi secondi è impossibile capire cosa stia succedendo
. Tutto si muove enormemente, si perde l’equilibrio e il senso di orientamento… Sopra, sotto, a fianco, di dietro: si avverte concreta una grandissima minaccia attorno a sé, di cui è difficile identificare anche solo fonte e provenienza. Un’esplosione? Un attacco armato? Cosa sta succedendo? Tutta la gente viene presa dello stesso panico, e non si capisce da cosa ci si debba proteggere…
Poi, la consapevolezza che si tratta di un terremoto. Mentre proseguono le scosse, ci allontaniamo dagli edifici e da altri edifici coperti buttandoci in strada. Il tutto dura un’eternità… Più di un minuto: è corto e, nello stesso tempo, infinitamente lungo. Mi è parso che l’orrore non finisse più, e ho avuto netta l’impressione che la terra si stesse per aprire sotto i miei piedi, che stesse per inghiottire gli edifici, le persone e le macchine… Ho pensato che fosse la fine del mondo.
Finalmente, la terra si è calmata. Le placche tettoniche hanno trovato come riappoggiarsi temporaneamente e concederci una tregua. O almeno questa è stata la sensazione… Ma tutt’attorno lo spettacolo era apocalittico: tutto è coperto da un pesante strato di polvere. In mezzo si muovono figure umane, grigie … e se ne intravedono altre rosso sangue. Corpi smembrati. Membra di corpi.
Niente è più come prima.
Anche io non riesco a riconoscere più il luogo in cui mi trovo, non è più quello che conoscevo… Poi lentamente capisco e metto a fuoco: la scuola, un edificio di 4 piani, non c’è più, è sparito. Al suo posto vuoto e polvere. I quattro piani si sono appiattiti uno sull’altro, in una sola massa di detriti che nascondono un numero ancora sconosciuto di persone.
I minuti seguenti sono durissimi da vivere. Decine e decine di persone affluiscono da ogni direzione, molti di loro feriti e insanguinati. I pochi superstiti della scuola vogliono saltare giù da 3 metri di altezza, e noi proviamo a dissuaderli, a pensare veloci a un’alternativa. La gente sta gridando per i propri figli, fratelli, amici, chiede che arrivi un medico… Ma io, cosa posso fare io in una situazione tanto disperata? Con un’amica che mi ha raggiunto accompagniamo alcuni feriti all’ospedale… L’ospedale è stato già preso d’assalto, ci sono soltanto due medici per una moltitudine di feriti gravi, e il divieto di entrare tra i muri danneggiati, che rischiano di crollare con le scosse di assestamento…
Cosa fare allora per rendermi utile, per aiutare almeno una di queste povere vittime?!?!? Ecco la domanda tremenda che sento urlare nella mia testa. In una situazione in cui non c’è più nulla, posso fare poco. Senza mezzi di locomozione (le strade sono bloccate), senza medici, senza ospedale, senza comunicazioni… Il senso di frustrazione è terribile. Forse posso rendermi utile unendomi ad altri, andando per esempio all’ambasciata. Non m’importa della macchina del Progetto bloccata, né penso alla mia casa, se e quanto sarà distrutta… Almeno in ambasciata ci si potrà, forse, rendere utili. Aiutare insieme, organizzare una risposta, avere delle notizie degli amici e dei colleghi, portare altre notizie, anche di se stessi…
Arrivato all’ambasciata, mi rendo conto che la confusione anche qui è totale. Automobili schiacciate, muri crollati, mobili, effetti personali e documenti a pezzi e sparsi dappertutto. Automezzi e utensili vari ridotti a nulla… La situazione è identica in tutta la capitale, e fino a Léogane, la cittadina venti chilometri più a ovest, dove si svolgono le nostre attività di Progetto… proprio dove – come mi dicono subito alcuni - è stato l’epicentro del sisma. Ma senza comunicazioni, l’attesa è insostenibile. Senza notizie dagli amici, dai colleghi, dalle tante persone che ho conosciuto e amato in questi miei due anni ad Haiti…
Più tardi, saprò che i colleghi di Léogane sono tutti salvi ma in quei momenti non si può fare altro che attendere. Attendere, pensare e sperare. Tutti i contadini che stavamo aiutando, le loro famiglie, le loro case, come staranno ora? Tutto ciò che avevamo creato grazie al nostro Progetto (Piatto di Sicurezza, ndr.), il Centro di servizi agricoli, le infrastrutture per i silos e gli attrezzi, il pozzo… avranno resistito? Passeranno giorni senza avere notizie, impossibile chiamare nessuno… Ma queste sono solo le difficoltà iniziali. Perché, nelle ore e giorni successivi, ce ne saranno molte altre, infinite. La dimensione della catastrofe è inimmaginabile.
Come tutti quelli che erano lì, ho ripensato più volte al caso che vuole che io sia ancora qui, mentre tanti altri si trovavano laddove –quel giorno a quell’ora, in quell’istante- non si sarebbe dovuto. Se non avessi avuto quella riunione quel giorno, fissata all’ultimo momento, mi sarei forse trovato a Léogane come previsto inizialmente. E, nello stesso momento, un amico che si trovava nel suo ufficio al terzo piano di un edificio e che si è lanciato giù per le scale, sbattendo dieci volte contro i muri che oscillavano e pregando che l’edificio tenesse ancora, 20 secondi di più. E Suzy, la direttrice del nostro partner, il Cresfed, stava rientrando in auto da una missione in provincia, e si è trovata in pieno epicentro. L’autista è riuscito ad evitare d’un soffio il cratere che gli si è aperto davanti schivando nello stesso momento una grossa frana che stava piombando dalla sua destra.
Per altri è andata diversamente. Piango ogni giorno un grande amico che a quell’ora stava lavorando nel suo appartamento al quarto piano; un'altra amica e collega che era andata a trovare la nostra segretaria in una casa che non ha retto. Soffro con gli amici che hanno perso la loro figliola… Con i vicini e i tanti impiegati che hanno perso la famiglia e la casa… Non smetto di pensare ai miei amici di Léogane che avevano tanta speranza e energia per la loro regione. Ho nel cuore un popolo intero che soffre.
Davanti a tutto ciò spero di tornare presto ad Haiti per riprendere il lavoro al fianco della nostra equipe con i gruppi di Léogane. La mobilitazione in Europa è formidabile e necessaria, perché non si possono lasciare gli haitiani soli in questa tragedia.
Le poche notizie che sono riuscito ad ottenere in questi giorni, per telefono o internet, sono sempre molto dure. Eppure gli haitiani resistono. La loro forza mi appare davvero incredibile. Il loro coraggio e lo spirito di solidarietà sono impressionanti. Spero che venga fatto tutto il possibile per aiutarli. Il sacrificio sarà enorme, lo so. Ma bisogna restituire agli haitiani il loro Paese.
Di cuore, ringrazio anticipatamente tutti coloro che s’impegneranno per questo.

Nicolas Derenne
ProgettoMondo Mlal Haiti


Qui sotto le immagini scattate da Nicolas subito dopo il sisma

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